Luce e Materia
Un immaginario archetipico, una struttura di simboli: ecco una indicazione di lettura per i lavori di Renata Giannelli.
Il simbolo è oggetto del lavoro pittorico poiché la sua caratteristica è quella di parlare, di agire e di svelarsi in una costellazione di immagini.
E’ un percorso verso il fondo di una oscurità primaria per trovare un bagliore, intravedere una forma, sentire una pulsione.
Il suo linguaggio attinge ad una semplicità originaria quasi tribale; i suoi colori hanno il sapore delle terre impastate.
Viene in niente la tradizione alchemica.
Con la manipolazione attiva degli elementi l’alchimista vuole trasformare la materia e il mondo.
Le trasformazioni dell’anima si accompagnano a quelle della natura: in questa ambivalenza il piombo è lo stato caotico sia del metallo che dell’uomo nella sua interiorità; l’oro ne esprime la perfezione.
Dire perciò che l’oro allude, in questa pittura, alla perfezione alchemica è come affermare che manifesta il bisogno profondo di compimento e di fusione tra anima e materia.
Si potrebbe dire che ci si offre alla visione l’oscurità insieme ai suoi lampi di luce, l’energia stessa che ci sorregge e ci trasforma, per via di un impulso originario.
Miro Bini
( dalla presentazione scritta da Miro Bini in occasione della Mostra allo “Studio Virando” di Torino nel 1992)
Questo testo scritto da Miro Bini nel ’92 descrive bene l’origine e le motivazioni di fondo del mio fare pittorico.
Negli anni l’evoluzione della mia pittura ha seguito un percorso a spirale, sempre attorno allo stesso centro, aprendosi, a mano a mano, alla poesia.
Si può dire che è una spirale concentrica che procede verso l’alto: la materia non è più soggetto, luogo delle emozioni, ma resta il ricordo della materia, unito al ricordo, quasi autobiografico, delle emozioni legate ad essa, l’esperienza del numinoso, l’apparizione.
I temi non sono variati ma si sono aperti alla molteplicità del linguaggio.
La carta non è più protagonista come nei lavori del decennio precedente ma diventa anche supporto, un supporto sensibile, parlante, che accoglie i segni, la narrazione.
Come in una storia zen che racconta:
‘’all’inizio i fiumi erano fiumi e le montagne erano montagne
poi i fiumi cessarono di essere fiumi e le montagne di essere montagne;
tornarono poi ad essere fiumi e montagne ma non erano più gli stessi.”
È l’ultima visione di questi fiumi e di queste montagne quella che racchiude la pienezza del linguaggio, lo sguardo ampio, carico di memoria, che vaga felice con libertà.
Renata Giannelli, febbraio 2001
Renata Giannelli
Lavora in una grande casa di pianura, a pochi chilometri da Bologna. Non è la tipica casa dei c ontadini di queste parti, quadrata, austera. E’ allungata, con il tetto a due falde e una piccola torretta. Una volta era l’abitazione del casaro e conteneva una stalla (ora trasformata in atelier) e naturalmente il caseificio. Il casaro: un’altra figura tipica di quel mondo. Che non voltava e rivoltava le zolle, ma ne trasformava iprodotti, o perlomeno derivati. Nella grande cantina dove il casaro operava le sue alchimie, ora Renata Giannelli fabbrica la carta. La fa emergere da larghe tinozze dove cellulosa è una poltiglia bianca, informe, sfibrata. I suoi gesti, e ancora l’ambiente,conservano una piccola aura di magia e di mistero, coni’è inevitabile che sia laddove materia si trasmuta con tecniche antiche di secoli.
La creazione e la manipolazione della carta è un centro focale dell’attività artistica di Renata. Si tratta di un interesse che le è sempre appartenuto, anche in anni lontani. Ma c’è un evento nella sua biografia che segna un punto di svolta: nel 1988, a Barcellona, presso la Scuola sperimentale di grafica, frequenta un corso intitolato La carta come opera unica. Lo tiene un maestro americano, Tom Pupckievic.Insieme a un piccolo gruppo di discepoli, viene introdotta a tutti isegreti della carta e alle tecniche per produrla, da quella rinascimentale a quelle orientali, tibetana e giapponese. E soprattutto apprende che la carta non è solo un supporto, una lavagna neutra e indifferente. E’ anche materia creativa. Come il marmo, come la scrittura, come le note musicali.
A questo incontro, decisivo per la sua formazione, Renala Giannelli arriva dopo un percorso nel quale ha accumulato i suoi buoni semi. Qualche nota biografica: nasce a Milano da una famiglia di intellettuali (padre fisico nucleare, madre insegnante di matematica). Dopo il liceo, frequenta la Scuola Politecnica di Design dove ha come maestro Bruno Munari.Si trasferisce a Bologna per frequentare il Dams, ma poi sceglie l’Accademia di Belle Arti.
Completali gli studi, Renala non è di quelli che dal panico. A lavorare ha cominciato molto presto, scuola e lavoro sono stati a lungo esperienze parallele. Si guadagna da vivere come grafica pubblicitaria, e si apre un interesse anche nel campo della ricerca artistica. Respira a pieni polmoni informale, che a Bologna ha una tradizione fertilissima. Ma è già netto un atteggiamento tipico della stia personalità: non l’arte per l’arte, non la propensione speculativa che si esprime segnatamente nella pittura. Renata Giannelli predilige l’arte applicata, ama la contaminazione delle forme espressive: pittura ma anche scultura, manipolazione, bassorilievo. Va alla ricerca di materie nuove cui dare soffio vitale con le mani, oltre che con i pennelli. E, come s’è visto, le trova in Spagna, dove è accorsa ad altri cinque o sei allievi provenienti da vari paesi d’Europa.
Comincia così, dopo la scoperta della carta, la fase piti recente e matura della sua attività. Su pannelli di varia dimensione, articola composizioni dove la materia è sempre il centro creativo. E’ materia ancestrale, primordiale, preesistente e tuttavia calda, di misteriosa carica emozionale, evocatrice dei simboli della vita: il sole, l’aria, il fuoco, l’acqua. E su di essa imprime figurazioni astratte, o solo vagamente accennate, come le nuvole, il cuore, l’ala, frammenti di architettura; o reperti di passate stagioni contadine come il falcetto ormai ridotto a fossile ossidato, o l’assicella tarlata di una vecchia imposta.
A tutto ciò l’intervento pittorico conferisce, spesso a vivi colori, quella che sembra la pàtina ridente e malinconica di un raggio di sole, l’armonia felice e perfetta dell’attimo fuggente. Il colore diventa forse il nostro sguardo stupito di uomini e donne, qui e ora, a questo punto del giorno, o della notte. L’eterno e il transeunte si tengono per mano, gli opposti depongono le armi. Ma l’equilibrio è solo apparente. Il conflitto è sempre lì, nella penombra. Sarà uno slancio di cuore a farci sentire la nostra gioiosa appartenenza e insieme la nostra dolente irriducibilità all’ordine delle cose, sarà l’emozione ad accostarci al segreto ultimo delle cose. Ed è questa la traccia che ci conduce nel mondo interiore dell’artista. Per la quale il momento dell’ispirazione è ricongiungersi con gli archetipi, è esperienza luminosa, è percezione dell’infinito. E l’arte, si può concludere, ci salva dal caos e dalla perdita di senso.
Maurizio Garuti